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SANTITA’ – come parlarne ai ragazzi

In occasione della festa di TUTTI I SANTI, di seguito vi proponiamo una bellissima lettura sui giovani e la fede attraverso la figura di tre giovanissimi beati!

 

Santi ragazzini. Giovane è la fede

EXagere – Rivista mensile

Periodico di contributi e riflessioni di sociologia, psicologia, pedagogia, filosofia. | 1
di Vera Fisogni

 

Premessa
Mentre non sembra arrestarsi la disaffezione dei giovani verso la fede, in ambito cattolico e cristiano, la Chiesa
propone al mondo luminosi modelli di santità incarnati in adolescenti e giovani adulti. Dal 2010 ad oggi sono
stati proclamati beati tre ragazzi italiani, le cui virtù eroiche brillano nel contesto di vite mediamente
ordinarie. Tutt’altro che “santini”, Chiara “Luce” Badano, Sandra Sabattini e Carlo Acutis trasmettono un’idea
di santità ad un tempo nuova, di appeal contemporaneo e, insieme, profondamente radicata nel Vangelo.
L’esemplarità delle loro vite, soprattutto, va a colmare quel deficit di testimonianza (Matteo, 2018)[1] che
sembra essere alla base del distacco dalla pratica dei sacramenti sempre più diffusa, soprattutto nel Vecchio
Continente, anche nei Paesi di più antica cristianizzazione, come Italia e Spagna. In questo breve saggio
intendo inquadrare alcuni luminosi profili di santità recenti, molto seguiti anche a livello di social network, per
tratteggiare una teologia della gioventù. La seconda parte sarà invece dedicata a Teresa di Lisieux, proclamata
dottore della Chiesa da Giovanni Paolo II proprio per un approccio alla fede caratterizzato dal candore
intuitivo e introspettivo della prima giovinezza, nel cui solco sembrano mettere radici le più recenti esperienze
di santità giovanile.

Non è una Chiesa per giovani?
È un fatto che nelle nostre parrocchie si allenti la pratica religiosa, ormai da decenni e che i giovani adulti
siano sempre meno presenti alle funzioni, oltre che nell’attività pastorale. I due anni di pandemia hanno
accentuato questo stato di crisi, favorendo la «de-sacramentalizzazione della fede»[2] e un generale
affievolimento del senso stesso di appartenenza alla Chiesa, riassumibile nell’espressione inglese believing
without belonging (credere senza appartenere)[3]. Tra i timori paventati dal gesuita Lobo Arranz, c’è quello
della dispersione degli attualmente praticanti a cui va aggiunta la preoccupazione di un ulteriore
indebolimento della partecipazione dei più giovani. «Pensiamo (…) a quei genitori che, avendo sperimentato
una certa difficoltà a educare i figli alla fede, ora dovranno convincerli da capo all’importanza di partecipare
alla Messa dopo vari mesi di assenza. E che dire delle comunità giovanili in formazione, alle quali sono venute
meno le consuetudini che favoriscono la pratica sacramentale?»[4].
Il rapporto tra fede e giovani, almeno in Europa, non presenta nette differenze tra cattolici e appartenenti ad
altre “famiglie” cristiane. Esiste una discrepanza abbastanza netta tra la pratica del culto e il sentimento
personale circa il rapporto con Dio. Nel 2011 una ricerca di Barna Group, società di sondaggi della chiesa
evangelica americana, condotta nell’arco di un quinquennio, ha rilevato che tre giovani cristiani su cinque,
dopo i 15 anni – poco dopo il sacramento della cresima nella fede cattolica – non frequentano più la messa
domenicale, né le occasioni di incontro della loro comunità religiosa. La disaffezione sembra dipendere, dai
questionari raccolti tra i 18 e i 29 anni, da una visione del cristianesimo lontana dalla vita reale e dalla
tendenza dei cristiani «demonizzare tutto ciò che è al di fuori della Chiesa»[5]. Va rilevato, in parallelo, il
crescente appeal delle Gmg, le “Giornate mondiali della gioventù” istituite nel 1985 da papa Giovanni Paolo II,
a cadenza biennale, il cui prossimo appuntamento è fissato nel 2023 a Lisbona, con un anno di ritardo a causa
della pandemia. Del resto, sempre Barna Group, in un sondaggio online condotto su 1300 ragazzi della
generazione Z (i nati dal 1996) tra marzo e aprile 2021«l’82% dei cristiani tra i 13 e i 18 anni dice che è
importante per loro condividere la loro fede. E quasi l’80% dice di aver avuto una conversazione sulla fede con
qualcuno nell’ultimo anno»[6].

In questo scenario, schizzato in modo succinto, spicca il rilievo che la Chiesa cattolica conferisce alla sanità dei giovani, che si esprime nel riconoscimento di vite eroiche di ragazzi portati alla gloria degli altari. Ben tre gli italiani che, dal 2010 al 2021 sono stati proclamati beati: Chiara “Luce” Badano (2010), Carlo Acutis (2020) e Sandra Sabattini (2021).

Tre giovani così vicini a noi e così lontani
Contemporanei, di generazioni differenti, eppure così simili, Chiara Luce (1971-1990), Sandra (1961-1984) e
Carlo (1991-2006) condividono alcune esperienze di fondo. Vivono brevi vite, tra i quindici e i ventidue anni,
sono ottimi studenti, hanno un’intensa vita spirituale e sociale. Se Chiara, ligure, ottiene il secondo nome Luce
da Chiara Lubich per la luminosa energia che manifesta, con opere e pensiero, nel movimento dei Focolarini,
la riminese Sandra è una fornace ardente di altruismo, a fianco di don Oreste Benzi. La prima è una sportiva.
Gioca a tennis. Proprio durante un match scopre di essere malata di una rara forma, incurabile, di tumore
osseo, che la porterà via a diciannove anni.
La seconda, futuro medico, ha l’età giusta per programmare una famiglia. È fidanzata, quando viene ferita
mortalmente in un incidente automobilistico a soli 22 anni. Nelle narrative dei social network si parla di lei
proprio come la “beata fidanzata”, perché non era mai successo prima che una promessa sposa arrivasse alla
gloria degli altari. Ci sono mogli (Gianna Beretta Molla), vedove e vedovi (santa Rita, il signor Martin, papà di
Teresa di Lisieux), ma nessuna nubenda.
E infine il ragazzino milanese riccioluto. Appassionato di Gesù, al punto da non perdere mai la messa
quotidiana e da recitare ogni giorno il rosario, Carlo si prodiga con entusiasmo nella divulgazione del Vangelo
e dei miracoli eucaristici. Pur appena quattordicenne, organizza, promuove e realizza una mostra su questa
tematica, ancora oggi cliccatissima sul web. Dei tre giovani è l’unico nativo digitale, un tratto non accessorio,
dal momento che Carlo mette a frutto la competenza informatica proprio nella didattica della fede rivolta ai più
piccoli, con approccio multimediale: gli piacciono i fumetti, oggi diremmo le graphic novel”, è un “asso” in
tutto quanto attiene al mondo digitale. Non a caso si è parlato di lui come patrono del web. Con i suoi quindici
anni, tanta passione per le tecnologie, un’intelligenza brillantissima, ottimi studi e famiglia alto borghese,
avrebbe potuto diventare qualcuno. La storia va diversamente. Qualcuno con la maiuscola gli si rivela nel
quotidiano: la madre, in vari incontri pubblici, oltre che nel libro in cui racconta il figlio, fa notare l’assoluta
normalità della vita di Carlo, che però ha una marcia in più sul piano spirituale. Nessuno, nel vederlo così
sportivo e in salute, avrebbe immaginato che potesse morire a quindici anni, per un tumore.
Prima che sugli altari e nel canone dei santi, la luminosità della fede è, in Sandra, Chiara Luce e Carlo,
consapevolezza profonda, vissuta, arricchita di continuo su due fronti: quello della preghiera, nel dialogo con
Dio e quello delle opere improntate al bene. Contano certamente le famiglie nelle quali questi ragazzi sono
cresciuti, non tanto per la testimonianza della fede in sé stessa – i genitori di Carlo, ad esempio, non erano
praticanti – quanto per l’essere stati lasciati liberi di credere e testimoniare. Non sono profili di “santini”. Le
loro vite non sono costellate di esperienze mistiche straordinarie (visioni, allocuzioni, miracoli, bilocazioni,
segni corporei della passione), eccezion fatta per l’intreccio di spiritualità ed esistenza ordinaria.
Una santità “giovane”?
Possiamo rinvenire tracce di un modo speciale di vivere la santità in quanto ragazzi? In certo senso sì. Per
almeno due ragioni. Da un lato c’è la consapevolezza, in tutti, della forza e dei limiti della fase esistenziale che
stavano attraversando. Dall’altro, la giovane età si dà a vedere come un modo di essere “integrale” e “integro”
di fronte all’esistenza. Caratteristiche che alimentano quell’insieme di qualità decisive per aprirsi un varco nel
mondo: la determinazione, la capacità di visione, la flessibilità, la compassione, la freschezza, l’attitudine a
condividere e ad entrare in relazione. Su un piano filosofico, a questa fase dell’esistenza – anche in virtù della
complessa tessitura antropologica – corrisponde l’attitudine alla meraviglia, lo sprezzo del pericolo, l’anelito a
fare dei propri sogni concreti piani di vita. Nell’insieme, dunque, l’essere giovani configura le premesse di uno
stato nascente, anzitutto del proprio sé: ci si costruisce.
Se rapportiamo questa cornice, costituzionalmente propria della persona, al piano della fede e, in particolare
di quella cattolica, ci accorgiamo che si adatta plasticamente al messaggio evangelico.
L’insegnamento di Cristo – l’Uomo nuovo – forgia persone sempre pronte a rimettersi in discussione di fronte
all’alterità. Il prossimo, parola chiave del messaggio cristiano è sempre un incontro capace di spiazzare,
aprendo al nuovo e all’impensato. È proprio dei giovani un approccio flessibile, curioso, senza pregiudizi o
meno pregiudiziale nei confronti della vita. Nel Vangelo il Signore invita a lasciare che i bambini gli si
avvicinino, per la loro capacità di intuire in modo comprensivo la complessità. Chiara, Sandra e Carlo hanno
lasciato pensieri, non certo trattati teologici. Pensieri semplici e densi, scritti sul diario o consegnati ad amici e
genitori. Non parlano la lingua della teologia tradizionale. Forse è anche per questo che la Chiesa ha così
bisogno di questi testimoni, dalla fede cristallina e con la capacità comunicativa diretta dei ragazzi.
Scrive Chiara Luce: «I giovani sono il futuro: io non posso più correre, però vorrei consegnare loro la fiaccola,
come alle Olimpiadi, quando uno corre poi si ferma e consegna la fiaccola a un altro: perché hanno una vita
sola e vale la pena spenderla bene»[7].
Sandra a 17 anni affida questo pensiero al diario che compila fino alla vigilia dell’incidente mortale: «Dire: sì,
Signore, scelgo i più poveri, ora è troppo facile, se poi tutto resta come prima. No, ora dico: scelgo Te e basta».
Nei suoi scritti è continuo il travaso tra Gesù e il prossimo, l’uno incarnato/riflesso nell’altro/Altro e viceversa:
«Ci siamo spezzate le ossa, ma quella è gente (il riferimento è ai disabili della Comunità Papa Giovanni XXIII di
don Benzi, nda) che io non abbandonerò mai». Impressiona che siano le parole di una ragazzina tredicenne.
Nell’inquadrare lo specifico spirituale della Sabattini, il vescovo di Rimini ha impiegato parole che possono
valere anche per Carlo e Chiara. «La figura di Sandra – ha detto Francesco Lambiasi – può essere segnalata
come icona credibile e attraente della santità della porta accanto, compresa da papa Francesco come “la
santità di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio”». Per questo «non occorrono
esperienze eccezionali di impegno ascetico o di contemplazione mistica. A Sandra è bastata la trama di una
vita ordinaria, tessuta di fede viva, sostenuta da una preghiera intensa e diffusa. Una vita spesa nel lieto e
fedele compimento del proprio dovere, punteggiata da piccoli gesti di un amore teso all’estremo, in una
appassionata amicizia con Cristo “povero e servo”, in un servizio generoso e infaticabile a favore dei poveri.
Una volta incontrato Gesù personalmente, lei non ha più potuto fare a meno di amarlo, di puntare su di lui, di
vivere per lui, nella Chiesa»[8].
Lo stesso si può dire di Carlo. Il senso del Vangelo come imitazione di Cristo. «Offro tutte le sofferenze che
dovrò patire al Signore, per il Papa e per la Chiesa, per non fare il purgatorio e andare dritto in paradiso».
Colpisce il riferimento all’infrastruttura, scelta ad indicare la linearità e la velocità dell’innalzamento a Dio.
C’è, in questo, una straordinaria consonanza con Teresa di Lisieux, come vedremo, in particolare con l’esempio
dell’ascensore per raggiungere l’Altissimo. Il linguaggio di Carlo – fatto tipico dei giovani, anche
nell’esprimere la fede – fa spesso ricorso alla quotidianità dell’esperienza. Una delle sue frasi teologicamente
più complesse – «Tutti nasciamo come degli originali, ma molti muoiono come fotocopie»[9] – va in questa
direzione, sia per potenza visiva che per intuizione del mistero dell’uomo.

Teresa, la bambina di Dio
Una svolta, nel senso del riconoscimento teologico dell’infanzia e della giovinezza, si deve certamente al papa
(e santo) Giovanni Paolo II, che – oltre ad aver promosso le Giornate mondiali della gioventù – ha proclamato
nel 1997 Teresa di Lisieux “Dottore della Chiesa” proprio sulla base di un approccio originale alla fede, che
attinge allo sguardo dei giovanissimi.
Vista da una prospettiva non teologica e non confessionale, la vicenda di Teresa di Lisieux (1873-1897) appare
sorprendente. Perché il perno della sua vita prima e della sua santità poi – l’infanzia spirituale – ha originato
due posizioni contrastanti. Inizialmente, questa giovane testimone della fede cattolica fu tanto amata quanto
banalizzata, ridotta a nostra signora dei vezzeggiativi, dei fiorellini, dei petali di rosa sparsi con prodigalità
sugli affreschi che la raffigurano. Poi, a un secolo circa dalla sua morte, ecco che la carmelitana francese viene
riconosciuta dottore della Chiesa[10], proprio in virtù della sua “piccola via” come strada per la santità.
Diamole subito la parola per capire meglio cosa intenda:
«Lei lo sa, Madre: ho sempre desiderato d’essere una santa (…) mi sono detta: il Buon Dio non potrebbe
ispirare desideri irrealizzabili, quindi, nonostante la mia piccolezza, posso aspirare alla santità» (Ms C, 2v).
Molti saggi sono stati scritti per chiarire il senso della sua intuizione, come pure non sono mancate le voci di
autorevoli teologi dubbiosi sull’autentica grandezza teresiana. Uno su tutti, H. U. von Balthasar[11]. Ma anche
questo è significativo della complessità di un pensiero in apparenza chiarissimo, quello di una ragazzina che
aveva colto in profondità il senso del Cristianesimo come via alla santificazione, avendo Gesù Cristo come
modello. Che cosa c’era di strano, allora, nel volersi fare santa? Pare di trovarsi di fronte una bambina: la
stessa disarmante trasparenza, la stessa testardaggine[12] nel voler raggiungere uno scopo così arduo.
Proprio come succede con i ragazzini che, alla domanda, “cosa vuoi fare da grande?” inanellano una serie di
profili professionali alti, altissimi, talvolta stellari. Naturalmente Teresa era tutt’altro che una sprovveduta.
Basti pensare che aveva fatto di tutto per incontrare il Papa, a Roma, per ottenere l’autorizzazione ad entrare,
quindicenne, nel rigoroso Carmelo, e si tormentava al solo pensiero di poter dispiacere Dio, percependo in
profondità l’aridità mortifera del peccato. Lungi dal voler entrare nel merito del dibattito specialistico di
pertinenza teologica, mi propongo di osservare, con sguardo fenomenologico, la piccola via di Teresa come la
via teologica al candore: al bene come essenza stessa della condizione umana.
Teresa comprende che c’è qualcosa di molto specifico, nell’essere bambini e ragazzi, una componente insieme
cognitiva ed esperienziale, capace da sola di introdurre al mistero dell’Essere eterno. Tutto questo avviene
senza il supporto di un’attività teoretica, ma attraverso la vita quotidiana ordinaria, la dimensione degli affetti:
il bambino si affida completamente a chi lo accudisce; il giovane fa riferimento al gruppo famiglia, alla scuola,
agli amici. Attraverso le dinamiche affettive-relazionali, la persona – in età giovanile, a partire dalla primissima
infanzia – perviene all’esperienza di bene come originariamente fondata nella relazione e quasi naturalmente
si apre all’Altro. Se Gesù, nel Vangelo, esorta gli adulti a lasciare che i bambini gli si avvicinino, è per dare
riconoscimento pieno, in ambito di fede, a questa consonanza essenziale con il Mistero del rapporto con Dio
personale e trascendente. Non è certo un caso che Gesù si faccia conoscere al mondo da bambino, prima con
la sua nascita, povera e umile, ma accompagnata da prodigi capaci di suscitare un’attenzione mai
precedentemente tributata a un neonato. L’unica parentesi pubblica della sua vita, prima della predicazione,
appartiene, inoltre, a quell’età liminare tra infanzia e adolescenza, che proietta Gesù nel contesto del Tempio.
Troviamo un ragazzino che parla da sapiente, sa atteggiarsi da navigato teologo, suscita stupore per la sua
faccia tosta. E, tuttavia, non perde nulla del suo essere pre-adolescente, nel momento in cui si rivolge ai
genitori in ansia con una determinazione quasi sfrontata («Perché mi cercavate?», e poi: «Non sapete che devo
fare la volontà del padre mio?», Lc 2,41-52).
Il ruolo della piccolezza, “ascensore” a Dio Figlia del suo tempo, e affascinata dalle applicazioni tecnologiche della società industriale, da lei stessa
sperimentate con stupore, Teresa elabora nel suo immaginario l’idea di un ascensore[13], che velocizzi
l’approdo a Dio, forte del fatto che «in Amore non ci si solleva, ma si è sempre portati». Interessante l’uso della
tecnologia del suo tempo per esprimere la profondità del pensiero teologico, che richiama l’autostrada di Carlo
Acutis.
«Allora ho cercato nei libri santi l’indicazione dell’ascensore, oggetto del mio desiderio; e ho letto queste
parole uscite dalla bocca della Sapienza eterna: “se qualcuno è molto piccolo, venga a me…» (Ms C, 3r).
Guardando a sé stessa, però, la giovane Teresa Martin riconosce di essere “troppo piccola per salire la dura
scala della perfezione”. Di qui l’idea che un Altro possa aiutarla, proprio come succede con gli infanti:
«ho continuato le mie ricerche ed ecco quello che ho trovato: “Come una madre accarezza il figlio, così io vi
consolerò: vi porterò in braccio e vi cullerò sulle mie ginocchia”».
L’idea di un’infanzia che conduce alla santità non è l’essere piccoli in quanto tale, anche se la condizione lo
richiede. Teresa coglie lo specifico modo di essere dei giovanissimi, cioè la dipendenza dai genitori, non
soltanto nel senso che questi agiscono per i propri figli, ma anche e soprattutto per le modalità affettive
caratteristiche del loro rapporto. Proprio la carezza della mamma nei confronti del bambino, lo fa sentire saldo
nella propria identità e nello stare al mondo; un papà disponibile all’ascolto dei figli adolescenti inquieti è
decisivo per restituire un punto saldo nella più complessa fase della crescita. In modo intuitivo la carmelitana
ventenne ha colto il ruolo decisivo della relazione nell’esperienza del bene[14]. Non il piccolo in senso
quantitativo partecipa a costruire la santità teresiana, quanto le componenti dell’inadeguatezza, che
richiedono l’accudimento, la modalità di trasmissione e costituzione del mondo del bambino e del
giovanissimo, attraverso il preminente ruolo dell’affettività.

Teologia dell’infanzia e della giovinezza
Alla luce di un legame speciale tra giovane età ed esperienza di bene, si comprende la piena legittimità della
sapienza teologica dei bambini, particolarmente riconosciuta dal Vangelo. Nell’esaminare la celebre frase di
Gesù in Mt 18, 3-4, Romano Guardini[15] ha fatto notare come l’essere del giovanissimo non è più vicino al
signore per il minor numero di peccati commessi, se comparati con quelli degli adulti, bensì in virtù della
maggior prossimità a Cristo stesso.
Quasi che il bambino e il ragazzo possedesse un’intuizione morale così acuta da sintonizzarsi in modo diretto,
potentemente intuitivo, alla fonte dalla quale la positività promana. A sostegno di questa ipotesi interpretativa,
Guardini porta un’altra affermazione di Gesù, quella relativa allo scandalo che si commette quando si manca di
rispetto all’integrità dei giovani, con la violenza o introducendoli alla trasgressione mediante l’esempio. Il
teologo correla infatti l’esperienza di bene propria della giovinezza con la sapienza di Dio, attraverso la
mediazione angelica.
Del legame tra “infanzia spirituale” e “infanzia angelica” parla, tra gli altri Naselli, ripreso da Zecca[16],
ribadendo come si verifichi, nella santa toscana Gemma Galgani, morta all’età di 23 anni, «l’attuazione più
genuina della volontà evangelica», che pone sullo stesso piano «piccoli e angeli, che vedono sempre la faccia
del Padre». Si noti che anche i pastorelli di Fatima furono introdotti, in qualche modo preparati alle
apparizioni della Vergine dall’angelo custode, che insegnò loro anche una particolare preghiera.
Nessuna immaturità teologica specifica, perciò, sembra attribuibile all’infanzia e prima giovinezza; semmai,
alla luce di questi significativi esempi, si può riconoscere ai bambini un’attitudine intuitiva finissima, nel
cogliere quanto sfugge ad altre età della vita. Ci riferiamo, in particolare, alle implicazioni metafisiche
dell’essere, ovvero alla capacità – già finemente teoretica – di andare oltre il dato, con modalità non razionale,
bensì forgiata da un’intima, empatica assimilazione della realtà in tutti i suoi gradi, dalla consistenza sensibile
al concetto astratto, universale. Diventa così meno assurdo che una bimba di soli sei anni, come Giacinta, una
dei tre pastorelli di Fatima, colga con piena profondità teologica l’inquietudine del peccato e si faccia
promotrice, pur con il linguaggio della sua età, dell’evangelizzazione delle anime[17]. Si noti che Giacinta e
Francesco Marto sono diventati santi “solo” nel 2017: tanto ha atteso la Chiesa per riconoscere la santità dei
ragazzini non riconducibile a martirio. Un ritardo che si deve al dibattito – ancora aperto, nonostante il
pronunciamento della Congregazione per le cause dei santi (1981)[18] – circa la capacità del bambino di
comprendere le virtù cristiane e di viverle consapevolmente.
Entro questa cornice, acquista un particolare valore la presenza di testimoni della fede di giovane età, come
Chiara Luce Badano, Sandra Sabattini e Carlo Acutis. Più che offrire un aggiornamento, nel linguaggio e nelle
immagini impiegate, dell’evangelizzazione nella fede cattolica, questi santi ragazzini rilanciano il vero nucleo
della fede, vale a dire la freschezza del messaggio evangelico. Non dimentichiamo che Vangelo è parola
originata dal greco buona notizia. La notizia, oltre ad essere qualcosa che irrompe dal quotidiano, possiede di
per sé una “novità” che la rende interessante. Alla giovinezza appartiene il nuovo in via, per così dire,
costituzionale: nel vuoto di testimonianza, che caratterizza la nostra epoca post ideologica, i giovani santi si
danno a vedere come provocazione e proposta.

[1] A. Matteo, Tutti giovani, nessun giovane. Le attese disattese della prima generazione incredula, Segrate,
Piemme, 2018
[2] https://www.laciviltacattolica.it/articolo/postumi-spirituali-del-covid-19/
[3] L. Fanzaga, Se siete miei, vincerete, Segrate, Piemme, 2022
[4] https://www.laciviltacattolica.it/articolo/postumi-spirituali-del-covid-19/
[5] https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2011/10/12/news/perche-i-giovani-cristiani-lasciano-1.36924444
[6] https://cristiani.blog/la-generazione-z-vuole-parlare-di-fede/
[7] Fondazione Badano, Nel mio stare il vostro andare. Vita e pensieri di Chiara “Luce” Badano, Cinisello
Balsamo, San Paolo Edizioni, 2019
[8] https://www.ilrestodelcarlino.it/rimini/cronaca/foto/sandra-sabattini-beata-1.6957631

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    Pubblicato il 3 Giugno 2020

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